Recenzie -
Mihaela Cernitu scrive in
italiano ma è nata a Craiova, in Romania. La sua lingua madre in cui
accuratamente poi traduce i suoi versi italiani è il rumeno, una lingua simile
e dissimile in una volta all’italiano che usa per la sua scrittura. Il suo
sguardo poetico, dunque, è sempre quello dell’osservatore, di chi guarda dalla
finestra il mondo in cui si è ritrovata a vivere e che spesso non riesce a
comprendere totalmente. L’oggetto della sua poesia è un’Italia in cui è venuta
a vivere e di cui ha prescelto e prediletto cultura e vita quotidiana; la lingua
che usa per farlo è un tentativo di conciliare esigenze culturali e consumo
usuale delle parole necessarie per farsi comprendere e per comunicare. La
poetessa vive allora tra due mondi: quello della scrittura poetica che
frequenta abitualmente ma che non esaurisce la sfera delle sue osservazioni
umane e culturali e quello della vita quotidiana da cui trae gli spunti per la
sua produzione lirica. Scrive, infatti, Franco Manescalchi nella sua precisa Presentazione
del volume di Mihaela Cernitu:
«Ma, direi, il pregio essenziale
di questa raccolta è di cogliere il microcosmo nel macrosmo e viceversa,
ovverossia la capacità di operare la magia particolare del poeta che consiste
nel creare un’immagine doppia, in dissolvenza per cui ciò che è detto non è soltanto
ciò che è detto, e ciò che è scritto non è soltanto ciò che è scritto. In
questo modo il privato, in quanto tale, si fa pubblico e il momento muove nella
dimensione dell’universale. La poetessa può, in questo modo, fermare sulla
pagina l’inchiostro del giudizio verso personaggi che si pongono fuori
dall’umano (l’affarista, lo zuzzurellone) con un moto di coscienza tipico della
poesia dell’Europa orientale del ‘900, e nello stesso tempo registrare i suoi
lampi immaginifici, le sue riflessioni contemplative su un’ora del giorno, una
città visitata, il mondo delle proprie amicizie, uno spazio domestico che
diventa colore, un suono che diviene musica, o – per concludere – ubiquità
poetica fra due luoghi lontani» (p. 4).
La scrittura della Cernitu si
configura così come un crocevia tra due mondi: la comprensione dei fatti della
vita quotidiana stempera in una malinconica accettazione dello spaesamento in
cui si trova talvolta a vivere mentre la capacità di sognare e di concedere
delle fughe verso altri mondi e altre forme di esistenza possibili si raggruma
in immagini vivide e coerenti, in impressioni ferme e attente, in forme di
condivisione e di conoscenza della difficoltà di vivere:
«POMERIGGIO IN CASA.
Pioveva stamattina, adesso ha smesso, / fa freddo: fuori è autunno, in casa
siamo in due, / ognuno con il suo freddo nelle ossa, nel cuore, in sé. / Chiusa
in grande silenzio, guardo dalla finestra, / mi saluta un alloro con i suoi
verdi-eterni rami, / a dire tutta la verità, l’alloro alto non parla, invece /
saluta la mia immaginazione per non impazzire di noia. // Pomeriggio-solfeggio
di una sinfonia orientale, / con l’impresario solenne seduto nel mio soggiorno;
/ divento un quadro-ciclone per me stessa / in una parte insofferente del
mondo. / Le cose, le parole, i muri, la camera, le piante / parlano un
linguaggio straniero in questo pomeriggio; / non capisco dove ho smarrito la
pazienza» (p. 26).
Mihaela Cernitu ama queste
sintesi folgoranti, questi corto circuiti tra parole che le permettono di
forgiarsi una lingua propria a cavallo tra italiano e rumeno, tra linguaggio
colto e lirico e parole più usuali appartenenti al mondo di tutti i giorni, tra
situazioni vissute frequentemente e condivise e salti di immaginazione lirica
ed esplorazioni nel sogno. La duplice frontiera della scrittura che la abita e
le consente di esprimersi si apre così alla sua dimensione onirica e permette a
ciò che circonda e costituisce la sfera vitale della poetessa di dialogare con
lei, di diventare un personaggio esemplare della sua stessa poesia. Il freddo
metereologico si confonde e si raddensa in una gelata interiore che manifesta
così la propria natura simbolica e per sfuggirgli non c’è altro da fare che
evadere dalla realtà e rifugiarsi nella fantasia e nella trasformazione fantastica
di ciò che non piace o di cui si comincia a stancarsi. Seguendo una diffusa
tradizione letteraria che ha il suo capostipite in una fortunata lirica di
Vincenzo Cardarelli, anche la Cernitu coniuga il proprio omaggio ai gabbiani:
«IL VOLO DEI GABBIANI.
Il mio corpo ha un profumo di mare, / di vento, d’autunno, di neve, / di
pioggia, di tristezza, di gioia, di buio, / di luce, di te, di domani, / di
fiori, di miele, di… pensieri vecchi, di solitudine. // Sento il giorno
incolore, / vedo lo splendore della luce eterna, / sento la notte inquietante,
/ le stelle che tremano nell’aria, / sento la mia vita – un canto nella memoria
/ degli amanti perduti. // I miei attimi sono gabbiani; / volano sopra i sogni
d’acqua. / Volano lontano, chi sa dove / e chi sa perché con tanta fretta» (p.
14).
La mestizia diffusa si fa scatto
di colore e di speranza quando il mare e la natura si trascolorano. Anche i
gabbiani sono un simbolo (come si può facilmente ben capire) di questa
insofferente e prevaricata suddivisione in due dell’anima della poetessa, della
sua volontà di essere qui e là, indietro e ancora, in un paese e l’altro, in
una vita e l’altra, contemporaneamente. Cercare una via d’uscita per unificare
queste due prospettive è l’intento della scrittura poetica, è la sua meta
finale.
Qual è la soluzione da adottare
in questi casi, qual è il modello di scrittura che la Cernitu si inventa per
ritrovare la vena autentica della sua scrittura? Il passaggio verso il futuro è
legato alla capacità evocativa, quasi musicale del suo progetto di lingua “di
mezzo”, tra italiano discorsivo e omaggio alla tradizione. La molla che fa
scattare questo passaggio – la capacità di riallacciarsi all’italiano del suo
passato più illustre mescolando con le potenzialità della sua traduzione in e
dal rumeno – è il confronto con un mondo la cui influenza e la cui potenza
espressive non hanno ancora cessato di esercitare la sua funzione maieutica, il
suo impeto innovativo, la sua carica trascinante:
«FRA CRAIOVA E FIRENZE.
Soffro di … migrazione, fra Craiova e Firenze. / Respiro in una città, pensando
all’altra, / nelle mie vene c’è una corsa-grido, / e la malinconia mi porta da
una parte all’altra, / dividendomi per tutta la vita, con una precisione … /
promessa all’anima mia inchiodata o liberata; / mi corteggiano le nostalgie, le
gioie, le lacrime, i sorrisi. // Vivo fra una parte del mondo e l’altra con un
cuore solo, / spezzato dai viaggi, arrivi-partenze, misteriose ore con ricordi…
/ Spesso mi domando: “dove sono adesso?” al mio risveglio. / Fedele, il sole
risponde con un raggio sorriso / e senza motivo mi sento all’improvviso serena
nelle mie città. / Craiova è mia da sempre, / Firenze è la città del mio
presente» (p. 52).
Il tema della co-esistenza tra
due mondi lontani ma, nello stesso tempo, vicini non poteva essere delucidata
meglio. L’idea di uno spiazzamento, di una difficoltà a vivere avendo sempre
“il cuore altrove”, la mente “spezzata” in due dalla nostalgia, il ricordo come
un’ancora che trattiene e che lega la vita impedendo il transito definitivo
verso l’accettazione del presente. Insieme a questa caratterizzazione
dell’esilio come forma plastica in cui viene modulata la soggettività poetica,
i temi della scrittura letteraria di Mihaela Cernitu sono legati
all’osservazione di eventi quotidiani (come si è detto), di maschere sociali
incontrate per la strada, di riflessioni sulla città che cambia e sui sogni che
non si sono avverati e che sono il sale della speranza per l’esistenza che
verrà.
La realtà fatta di tanti piccoli
momenti-di-essere, di tante micro-situazioni, di tanti spunti narrativi tra il
divertito e l’onirico si rivela, alla fine, un caleidoscopio di incertezze, di
atti mancati, di illusioni perdute, di incerte e baluginanti forme di verità
poetiche.
«SIAMO UN’ISOLA… DI
DOMANDE. Siamo un’isola oppure un continente, / chi siamo e dove
andiamo tutte le mattine / quando il sole ci manda la sua luce? / Abbiamo
inciso nella pelle la nostra sofferenza / e la felicità dall’inizio dei tempi /
oppure abbiamo imparato dal vento, dalla pioggia, / dalla rugiada, dal sole, da
… tutto quanto? / Siamo una sola persona moltiplicata dal Dio, / siamo miliardi
di persone con la stessa strada / da fare fino in fondo dell’orizzonte? …» (p.
40).
Su queste domande epocali ma,
nello stesso tempo, minimali che la poesia di Mihaela Cernitu germina e si
diffonde, lasciando dietro di sé un alone di luce che è l’aspirazione alla
poesia come risposta non definitiva alle domande di fondo dell’uomo ma tuttavia
capace di condurre a un nuovo soggiorno di quiete.
___________________________*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)